Responsabilità della struttura sanitaria e danni risarcibili.

di Francesca Zanovello -

Il Tribunale di Treviso, con la sentenza del 23 settembre 2021, si è pronunciato su un caso di malpractice medica. La vicenda coinvolgeva il signor P.L. che, dopo una serie di accertamenti si vedeva diagnosticare la presenza di “Linfoma di Hodgkin classico variante sclero-nodurale” e, pertanto, iniziava il primo ciclo di polichemioterapia.

Nel corso del trattamento chemioterapico, per via endovenosa, il paziente allertava il personale infermieristico della presenza di una tumefazione all’avambraccio destro, intorno alla sede di agopuntura e, per tale ragione, il personale procedeva ad incannulare un’altra vena, all’arto superiore sinistro, ove si verificava una nuova fuoriuscita del letto venoso, sicché il trattamento endovenoso veniva ultimato utilizzando una vena della mano destra.

A causa dello stravaso di liquido chemioterapico, che aveva interessato prima l’arto superiore destro e poi il sinistro, era conseguita una lesione ad entrambi gli avambracci, tradottasi in un deficit funzionale consistente in una grave limitazione della loro mobilità sia in estensione che rotazione, nonché un danno estetico dovuto alle cicatrici.

P.L. agiava così in giudizio contro l’ospedale per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

Il Giudice di prime cure si è previamente soffermato sulla natura della responsabilità medica, facendo richiamo alla giurisprudenza e all’intervento della l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) sul punto.

Nella specie, il legislatore del 2017, disattendendo l’orientamento giurisprudenziale che configurava la responsabilità del medico come contrattuale da contatto sociale, la ha espressamente qualificata come extracontrattuale (art. 7, comma 3, l. n. 24 del 2017), salvo che il sanitario abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

Per quanto attiene, invece, la responsabilità della struttura, il medesimo art. 7 mantiene l’originaria qualificazione contrattuale, statuendo espressamente che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di professionisti anche in regime di libera professione, risponde in ogni caso ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. Il legislatore ha così accolto il tradizionale orientamento giurisprudenziale in base al quale la responsabilità della struttura sanitaria ha natura contrattuale, trovando la propria fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive (c.d. di spedalità) con effetti protettivi nei confronti del terzo, in forza del quale, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo, sorgono degli obblighi a carico della struttura, sia di natura “alberghiera”, sia di messa a disposizione del personale medico e delle attrezzature necessarie.

Tanto considerato il Tribunale, sulla base delle risultanze della CTU, ha ritenuto acclarata la responsabilità dell’Azienda ospedaliera in quanto le complicanze verificatesi durante la seduta di chemioterapia dovevano attribuirsi all’inosservanza delle buone pratiche di prevenzione degli stravasi o, più semplicemente, ad una non adeguata attenzione dell’infermiera che ha eseguito la cannulazione delle vene degli avambracci. Conseguentemente, ha ritenuto accertata la responsabilità dell’Azienda ex artt. 1218 e 1228 cod. civ. per la condotta colposa dell’operatrice sanitaria.

Il Tribunale prosegue con l’esame dei danni risarcibili, passando in rassegna le diverse voci prospettate nella domanda attorea.

Il Giudice, sulla base delle valutazioni del consulente tecnico, ha riconosciuto il danno biologico permanente nella misura intorno ai 25 punti percentuali e il danno biologico temporaneo in 90 giorni al 50% per l’infiammazione locale, la flebite e la trombosi dei vasi venosi dell’avambraccio destro.

Il Tribunale ha escluso rilevanza alla possibilità di un intervento riparatore, atto a consentire il recupero della funzionalità del braccio, in quanto l’intervento prospettato, oltre a presentare rischi di complicanze, avrebbe condotto a miglioramenti non significati.

Facendo applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano il Giudice ha così riconosciuto la somma di Euro 109.469,00 a titolo di danno biologico permanente e di Euro 4.410,00 per i 90 giorni di invalidità al 50%.

Il Tribunale, richiamando i principi delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008 che configurano il danno non patrimoniale come categoria unitaria, ha escluso la risarcibilità del danno esistenziale e anche di quello morale.

Relativamente al danno c.d. dinamico relazionale, infatti, affinché se ne tenga conto ai fini della personalizzazione, deve trattarsi di circostanze anomali e inusuali; diversamente nel caso di specie il danneggiato si era limitato ad allegare i cambiamenti della vita quotidiana, le maggiori difficoltà consistenti in normali conseguenze dell’evento lesivo.

In ordine al danno morale, dato che ogni lesione fisica provoca dolore e posto che alcuni patimenti morali sono già compresi nella percentuale di invalidità permanente prevista dai criteri medico-legali per la liquidazione di quest’ultima voce, colui che chiede il risarcimento del danno morale ha l’onere di allegare e soprattutto provare tale ulteriore pregiudizio. Al contrario, l’attore si era limitato a porre l’accento sullo sconforto di dover convivere con la propria condizione.

Il Tribunale si è poi soffermato sul danno da cenestesi lavorativa (la maggior stancabilità, il maggior sforzo necessario per compiere le medesime attività o la necessità per il lavoratore di attingere alle energie di riserva) precisando che tale pregiudizio va ricondotto alla nozione di danno biologico, e non a quella di danno patrimoniale, e non deve essere liquidato sulla base di una percentuale del reddito dell’attore, bensì mediante la personalizzazione del danno biologico accertato tramite CTU medico-legale. In considerazione di ciò e della mancata prova di un tale pregiudizio da parte del danneggiato, il Giudice ne ha escluso la ristorabilità.

Con riguardo ai danni patrimoniali il Tribunale ha escluso la sussistenza di un danno da perdita di chance che la Cassazione configura come danno futuro consistente, non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; alla luce di tali considerazioni, il danno si identifica con la perdita del risultato utile sperato ed è risarcibile soltanto se si dimostri la verosimile certezza del suo verificarsi che, nel caso in oggetto, parte attrice non ha allegato, limitandosi ad affermare genericamente di non aver più potuto proseguire la propria attività imprenditoriale per le difficoltà fisiche ed emotive successive all’evento lesivo.

Ancora, il Giudice di primo grado ha negato la risarcibilità del danno da riduzione/perdita della capacità lavorativa sulla base della mancata prova, da parte del danneggiato, dell’effettiva contrazione reddituale successiva al sinistro e conseguente al pregiudizio alla salute e all’integrità fisica riconducibile al fatto illecito.

Tanto considerato il Tribunale di Treviso ha accolto la domanda risarcitoria, riconoscendo però il solo pregiudizio non patrimoniale liquidato in Euro 113.879,00.

Trib. Treviso 23 settembre 2021