Morte del paziente per cause non correlate all’errore medico: la quantificazione del danno va parametrata alla durata effettiva della vita del danneggiato.

di Davide Bonanno -

Un uomo di 48 anni si recava al Pronto Soccorso in seguito ad incidente domestico, a causa del quale aveva riportato la rottura dell’arteria poplitea della gamba destra. La Struttura effettuava le prime indagini soltanto 11 ore e mezza dopo il primo esame obiettivo. Il paziente veniva quindi sottoposto ad un primo intervento di rivascolarizzazione, in seguito al quale, tuttavia, si manifestavano i segni di una necrosi, circostanza che spingeva il personale ad effettuare l’asportazione chirurgica del tessuto necrotico con applicazione di innesti cutanei. Nonostante ciò, la necrosi continuava a diffondersi e si rendeva necessaria l’amputazione dell’arto inferiore destro.

Il paziente conveniva quindi in giudizio il nosocomio avanti al Tribunale di Potenza al fine di ottenere il risarcimento del danno. La Struttura si costituiva in giudizio; nelle more del giudizio di primo grado, l’attore decedeva per cause non correlate al ricovero ospedaliero; gli eredi proseguivano il contenzioso.

Il Tribunale di Potenza accoglieva la domanda attorea: ed un tanto rilevando che l’inadempimento al c.d. contratto atipico di spedalità va valutato ed accertato non soltanto con riferimento alle cure medico-chirurgiche, bensì anche a tutte quelle prestazioni complementari che assicurino al paziente un adeguato ricovero, tra le quali rientra la prestazione medico-professionale resa dal sanitario quale “ausiliario necessario” dell’organizzazione aziendale.

In punto di prova, la CTU rilevava che il personale sanitario era tardivamente intervenuto sul paziente omettendo di effettuare l’eco-color Doppler; da tale esame – secondo le indicazioni delle linee guida – avrebbe infatti potuto evincersi la gravità della lesione e la necessità di eseguire immediatamente una procedura di rivascolarizzazione. La CTU concludeva, pertanto, che – sebbene l’intervento successivo fosse stato eseguito a regola d’arte – la condizione fisica del paziente era oramai compromessa, e che, in seguito all’amputazione, il danno biologico complessivamente patito dal paziente dovesse essere stimato nel 66%. Il Tribunale di Potenza condivideva le conclusioni della CTU e riteneva provato l’an debeatur.

Per quanto concerne il quantum, in applicazione delle Tabelle di Milano aggiornate al 2021, il giudice di prime cure liquidava € 552.060,00 a titolo risarcitorio quale equivalente monetario del 56% di invalidità sofferta dal danneggiato, con decurtazione di un 10% che non costituiva danno-evento eziologicamente connesso al fatto lesivo. Tuttavia, il Tribunale riduceva il risarcimento in considerazione dell’avvenuto decesso dell’attore: in tale ipotesi, infatti, la risarcibilità del danno biologico non può essere temporalmente parametrata alla prognosticabile vita media del danneggiato, ma va calcolata con riferimento alla durata effettiva della vita di costui.

Pertanto, l’ammontare del danno risarcibile va ricavato dividendo la somma previamente liquidata per gli anni da vivere secondo le statistiche di mortalità (da individuarsi, nel 2011, in 79 anni e, dunque 79-48=31), moltiplicando poi il risultato per gli anni di vita effettivamente vissuti dal danneggiato dal momento del fatto lesivo sino alla sua morte (11 anni). Il danno risarcibile è stato così quantificato in € 195.892,26, maggiorato sino alla soglia di € 200.000,00 in considerazione della maggiore sofferenza patita dal paziente nel primo periodo di invalidità, in aggiunta al danno da inabilità temporanea quantificato in € 19.370,00. Il giudice di prime cure ha riconosciuto infine una personalizzazione del danno pari al 10% della somma complessiva.

Il Tribunale ha condannato, conclusivamente, il nosocomio a corrispondere agli eredi la somma complessiva di € 241.307,00 oltre ad interessi.

Trib. Potenza 29 novembre 2023