Danno da emotrasfusione e compensazione del risarcimento e dell’indennizzo percepito dai congiunti

di Francesca Cerea -

Nel 1983, un uomo si sottoponeva ad una emotrasfusione a seguito della quale contraeva l’epatite C e decedeva nel 2013. La moglie e la figlia agivano in giudizio contro il Ministero della Salute per vedersi risarcire il danno patito iure proprio per la morte del congiunto.

Il Tribunale, previa CTU, condannava il convenuto a corrispondere alle attrici la somma di € 460.000 e la Corte d’appello confermava integralmente la decisione.

Il Ministero affida a tre motivi il suo ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte dichiara infondato il primo motivo, con cui il ricorrente osserva che il verbale della commissione medico ospedaliera che riconosce l’esistenza del nesso di causalità fra l’emotrasfusione e l’insorgenza del virus non ha valore confessorio, in quanto valutazione tecnico-discrezionale che può essere contestata.

Sul punto il Collegio intende dare continuità all’orientamento secondo cui «il provvedimento amministrativo di riconoscimento del diritto all’indennizzo ai sensi della l. n. 210 del 1992, pur non integrando una confessione stragiudiziale, costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale, sicché il Ministero, per contrastarne l’efficacia, è tenuto ad allegare specifici elementi fattuali, non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo, o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dal danneggiato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano».

Secondo la Cassazione, quindi, la motivazione della decisione impugnata va corretta nella parte in cui qualifica come confessione il riconoscimento del diritto all’indennizzo. Ciò nondimeno, anche considerato come presunzione, tale riconoscimento è sufficiente ad essere il motivo portante della decisione impugnata, non avendo il Ministero fornito elementi tali da contrastarlo ed avendo la CTU stessa concluso nel senso di un’elevata probabilità di ricorrenza del nesso eziologico.

Quanto al secondo motivo il ricorrente sostiene che non è compito del Ministero provvedere al controllo delle singole sacche di sangue e che, in ogni caso, il virus HCV all’epoca dei fatti non era ancora noto alla comunità scientifica, ragione per cui non erano disponibili i relativi test identificativi.

La doglianza risulta inammissibile. Invero, la S.C. ritiene sussistente «la responsabilità del Ministero della Salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica del virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi, atteso che già dalla fine degli anni ’60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi».

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la mancata decurtazione dall’ammontare del risarcimento dell’indennizzo già percepito dalla moglie ai sensi della l. n. 210/1992.

La Cassazione accoglie il motivo sostenendo che l’indennizzo debba essere scomputato – in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno – dalle somme liquidabili in favore dei congiunti a titolo di risarcimento del danno parentale e a tale scopo rinvia la decisione alla Corte di merito in nuova composizione.

Cass. 8698-2024 – oscurata